“Ridatemi mio figlio”. L’eroe di guerra Nino Garbato e il dramma di suo padre Luigi

“La pensione di guerra? Tenetevela, io rivoglio mio figlio”. Lo urla forte Luigi Garbato, classe 1864, le lacrime agli occhi, il viso sfatto per il dolore. E’ il 1916. La guerra si è appena portata via il suo secondogenito, Nino, sottotenente d’artiglieria del Regio Esercito, caduto sul Carso e decorato con la medaglia di bronzo al valor militare. Nino è un bel ragazzo, ha poco più di vent’anni, è uno dei tanti giovani italiani che perde la vita in un conflitto assurdo, come tutti i conflitti.

Trento torna finalmente italiana, il tricolore con lo scudo sabaudo sventola dalla Torre di San Giusto a Trieste, Vittorio Emanuele proclama la vittoria sull’Impero Austro-Ungarico. E’ il 1918, l’Italia, sebbene prostrata, è in festa ma una generazione di giovani, fra cui il cagliaritano Nino Garbato, non farà ritorno a casa, caduto un giorno prima di Ferragosto del 1916.

Luigi Garbato (1864-1938)

Un giorno di fine estate la notizia arriva nella villa di famiglia, in viale Sant’Avendrace. Luigi è un facoltoso commerciante di formaggi, ha 52 anni ma quel giorno diventa improvvisamente vecchissimo, così come sua moglie Fedela Messina. Un dolore immenso colpisce anche i loro dieci figli superstiti.

Fedela Messina Garbato (1879-1925)

“Ridatemi mio figlio” urla fra le lacrime Luigi Garbato rifiutando con sdegno il “risarcimento” dello Stato che quel figlio se l’era portato via. E poco importa se quel ragazzo si era dimostrato un valoroso, poco importa quella medaglia al valor militare, poco importa quella posizione sociale che Luigi, figlio di Michele, procuratore del Re, si era guadagnato con la sua abilità nel commercio. Ora il mondo crollava addosso a lui e alla sua Fedela.

Pochi anni dopo la fine della guerra, nel 1922, una malattia si portò via anche anche il primogenito, Michele, stretto collaboratore del padre Luigi e abile motociclista: non fece a tempo a conoscere il suo figlioletto che la moglie Francesca diede alla luce poco dopo la sua morte e al quale fu imposto il nome del padre, Michele, appunto. Un colpo terribile per tutti e soprattutto per mamma Fedela che sopravvisse appena tre anni a quell’evento luttuoso.

Michele Garbato (1893-1922)

Quel maledetto 14 agosto del 1916 che si portò via Nino fu l’inizio di una discesa rapida per l’intera famiglia: la crisi del 1929 e la chiusura delle esportazioni di formaggio verso gli Stati Uniti fecero crollare l’azienda di Luigi: addio alla bella casa di viale Sant’Avendrace, addio all’ampia disponibilità economica. La vita di quell’uomo, ormai sessantacinquenne, fu stravolta. Vendette tutto quello che aveva, casa compresa, per saldare le pendenze e rimase, letteralmente, senza un soldo in tasca, a vivere con l’aiuto dei figli che, nel frattempo, si erano “sistemati”. Forse avrebbe voluto la pensione di guerra del suo Nino ma non gli fu concessa o, come più probabile, non la reclamò mai per dignità.

Ciò che rimane del villino Garbato, in viale Sant’Avendrace a Cagliari

Finì i suoi giorni il 29 settembre del 1938. Aveva fatto appena a tempo a conoscere il suo nipotino, Nino anche lui. Ma non riuscì a sorridergli. Quella maledetta guerra si era presa non soltanto suo figlio ma anche la voglia di vivere. Riposano tutti insieme, Luigi, Fedela e Nino in una cappella nel cimitero cagliaritano di Bonaria. Il nome di Nino, insieme a quello degli altri caduti è inciso su una lapide all’interno della basilica.

Di quelle vicende rimangono solo poche foto ingiallite e i muri di quella villa di viale sant’Avendrace, un rudere e nulla più, nel quale, in qualche calda notte d’agosto è ancora possibile sentire quell’urlo: “Ridatemi mio figlio”.

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